
Non sono molte le possibilità di ritrovarsi catapultati nell’arida steppa dell’Uzbekistan ma, come si suol dire, “al peggio non c’è mai fine”. Un comodo manuale per riuscire a destreggiarsi in un territorio che nonostante sia così ostile e selvaggio mantenga una straordinaria capacità di meravigliare grazie ai suoi spazi infiniti.
In particolare, a sud-ovest di Samarcanda, in Uzbekistan, si apre una distesa di terra, una vastità che si estende a perdita d’occhio, delimitata solo dalla catena montuosa del Kara Tube a sud. Questa steppa è una distesa di argilla resa monotona dalla quasi totale mancanza di flora: solo con il disgelo dei ruscelli montani, nei mesi primaverili, si ha una rigogliosa crescita della vegetazione; durante il resto dell’anno il paesaggio non si può considerare bucolico.

Come riuscire a sopravvivere in un ambiente così ostile?
1- Portare sempre con sé una bussola.
Sapere che a sud si trova un rilievo montuoso potrebbe sembrare una risorsa sufficiente per riuscire ad orientarsi, ciononostante potrebbe rivelarsi un errore da pivelli: nella steppa l’importante non è solo saper tornare indietro, ma soprattutto riuscire ad andare nel posto giusto. Per “posto giusto” si può intendere il canyon scavato nell’arco dei secoli dal canale artificiale chiamato Eski Angar, che sembra quasi spaccare in due il terreno, quasi come fosse una faglia; un villaggio le cui abitazioni sono tutte costruite in terra cruda o magari dove è possibile incontrare burberi pastori uzbeki con i propri temibili alabai, i cani-pastore che scorrazzano per la steppa; un sentiero affiancato da una serie di ronzanti arnie dalle quali vi verrà offerto del dolcissimo miele…

Sebbene la sua monotona vastità possa far sembrare la steppa un luogo terribilmente desolato, in realtà può rivelarsi quasi affollata. Anzi, il capitare nei mesi primaverili spesso consente incontri tra i più disparati con animali di ogni razza ed età: dagli asini, ai vitelli, ai pulcini, a degli orribili ragni gialli, ai cobra o alle volpi – anche se questi ultimi si fanno vedere ben poco ed è molto più frequente vederli di sfuggita, quasi come se fossero dei deja-vu–.

2- Munirsi sempre un rotolo di carta igienica, o di un qualsiasi surrogato della suddetta.
La maledizione del terribile Tamerlano, lo zoppo conquistatore Timur, non perdona. Per fortuna è abbastanza frequente che vi siano dei comodissimi bagni, igienici e facili di usare. Non si tratta di altro che di piccole strutture in terra cruda, o paksha, spesso ricoperte da una tettoia di eternit, con una porta raccattata alla “bell’e meglio” con materiali di reimpiego, per non definirli “rottami”, e con un buco nel terreno che fornisce un accesso diretto ad una profonda fossa. Semplice, efficace, evita la scocciatura di costruire fognature – che poi, nella steppa, dove potrebbero mai sfociare?–, e con l’occasione si concima il terreno, fosse mai che ci cresca qualcosa.

Se si è fortunati, la congiuntura colpisce mentre si vaga per uno dei tanti villaggi che costellano i dintorni di Samarcanda, e basterà bussare ad una qualsiasi porta. Un tentennante e grammaticamente scorretto “Mojna tualett?” – lett. “Potere toilette?” – in un russo improbabile, ma comprensibile ai più, e il vostro malcapitato ospite comprenderà quali siano le esigenze da soddisfare e facilmente potrà scortarvi ad un bagno per niente dissimile da quello nella steppa.

Queste case sono costruite utilizzando la vecchia planimetria che prevede “servizi all’esterno”; infatti, quasi tutte le abitazioni sono provviste di un cortile dove è stato possibile edificare una latrina in tutta tranquillità, senza troppi problemi catastali. Se sarete abbastanza fortunati, vi sarà data della carta igienica di pessima qualità, molto simile alla nostra carta velina. Altrimenti, alcuni testimoni – sopravvissuti – riportano che gli furono offerti dei fogli di quaderno, scritti in alfabeto cirillico, come surrogato della carta igienica.
3- Un vocabolario russo-italiano sempre in tasca.
Finché riuscirete ad incontrare personaggi che frequentarono le scuole prima della caduta dell’U.R.S.S. e della conseguente nascita della Repubblica Uzbeka, nel 1991, le conversazioni in russo andranno per la maggiore. Sempre meglio dell’uzbeko, una lingua turca con dei suoni gutturali impronunciabili o del tajiko, lingua iranica abbastanza simile al persiano parlato in Iran: la maggior parte della popolazione di Samarcanda è, in realtà, di origine tajika. Infatti, quando i sovietici conquistarono l’Asia Centrale decisero di mettere in pratica il buon vecchio motto dividi et impera, stabilendo dei confini che riunissero nello stesso stato varietà etniche e culturali completamente diverse; è questo il caso di Samarcanda e Bukhara.

In realtà, il russo conosciuto ed utilizzato in Uzbekistan dagli autoctoni non è certo quello delle migliori scuole di San Pietroburgo, e per riuscire a comunicare basterà una superficiale conoscenza del cirillico che permetta di leggere un vocabolario. Inoltre, l’amore per la vodka e l’ospitalità uzbeke riusciranno a superare qualsiasi ostacolo linguistico.
4-Bisogna accettare. Quasi sempre.
A volte può sembrare difficile. Può capitare che mentre si chiedono informazioni ad un pastore, questo si proponga di sgozzare una pecora per imbandire un banchetto in onore del proprio ospite. In questo caso, può sembrare scortese opporre un rifiuto. Ma, fosse solo per amore del malcapitato animale, converrà riuscire a tirar fuori un “Niet, spassiba”, ovvero no, grazie, tanto efficace che persino l’uzbeko completamente ignaro della lingua russo potrà comprenderlo.

In realtà, rifiutare un sontuoso banchetto è auspicabile solo ed esclusivamente in due situazioni, purtroppo frequenti: nel caso in cui si fosse vegetariani – e non sarà un facile soggiorno, in una terra in cui la maggior parte dei pasti sono a base di montone – e quello in cui l’invito vi fosse stato rivolto alle 10 del mattino.

Soprattutto, occorre tener da conto che il tutto verrà innaffiato da fiumi di piva – birra, in russo –, di vodka e, se si è particolarmente sfortunati, di vino locale. Il tipico menù dell’abitante di uno dei villaggi a ovest di Samarcanda comprenderà zuppa di montone, o di pecora, con patate, pomodori, cetrioli e pane. A qualsiasi ora del giorno. Non saranno rare delle soste in cui vi verrà offerto il kefir, ovvero del latte fermentato, spesso condito con aneto; una bevanda fresca e dissetante che è sempre piacevole sorseggiare nelle calde giornate trascorse nella steppa.

5- Mangiare la frutta e il pane uzbeki.
Il sultano Babur, capostipite della dinastia Moghul, originario di Samarcanda, riteneva che in India non vi fosse frutta che potesse stare al pari con quella uzbeka. Nel suo libro, il Baburnama, si lamenta soprattutto della mancanza di meloni ed angurie, e dell’impossibilità di trovare del buon pane e della deliziosa uva nel suo regno.

Nonostante le sue recriminazioni, le sue ultime volontà furono quelle di essere seppellito a Kabul – il luogo più vicino alla sua cara Samarcanda -, e sulla sua lapide l’iscrizione recita:
“Se c’è un paradiso in terra, è questo, è questo, è questo!”
Comunque, è pur sempre conveniente “toccare con mano” ed assaggiare, in questo caso, per valutare il gusto del sultano. Gelsi, cocomeri, meloni, ciliegie, pesche verdi, albicocche. La steppa non è sterile e priva di risorse come può sembrare ad una prima occhiata.
Sul pane, nonostante sia un argomento talmente vasto da poter occupare tomi, è opportuno ricordare che ci sono più varietà, tutte cotte posizionando la pasta sulle pareti del tandir, il forno in argilla cruda il cui prototipo risale ad almeno due millenni fa.

In genere, il pane viene venduto dalle donne agli angoli delle strade o nei mercati di Samarcanda; si può scegliere fra la versione più “soft”, morbida e meravigliosamente gustosa se mangiata ancora calda, e quella “a ciambella”. Quest’ultima varietà di pane ha al centro semi di papavero e diversi disegni, impressi con uno stampo. Ci si raccomanda di comprare – e assaggiare – il pane la mattina presto, appena fatto.
“Grapes, ‘melons, apples and pomegranates, all fruits indeed, are good in Samarkand ; two are famous, its apple and its sahihi (grape).”
Baburnama, Aug. 30th. 1497 to Aug. 19th. 1498 AD
(https://archive.org/stream/baburnamainengli01babuuoft/baburnamainengli01babuuoft_djvu.txt)
6-Il Battesimo dell’Eternit.
Pochi viaggiatori occidentali si ritrovano a vagare per giorni nella steppa; una delle cause più frequenti è l’archeologia. I primi giorni nei dintorni di Samarcanda possono rivelarsi traumatizzanti; una delle principali cause, oltre alla dissenteria e alla vodka alle 10 del mattino, è la ricerca incessante di frammenti di ceramica. Camminando per chilometri alla ricerca della preziosissima ceramica, prima o poi si incappa in un frammento di eternit: ad una prima occhiata superficiale può sembrare un bellissimo pezzo ceramico con decorazioni incise. In realtà, si tratta di un pericolosissimo materiale edilizio, usato ancora dagli uzbeki, che ignorano parole come “cancerogeno”.

Infatti, solitamente gli uzbeki ridono quando si cerca di fargli capire che non è piacevole trovare frammenti e, dunque, polvere di eternit nei campi di cardi; soprattuto dopo essere venuti a conoscenza del fatto che il cardo è la componente primaria di un olio commestibile. Ovviamente, dopo essersi fatti due conti, l’archeologo, o il viaggiatore, capirà che sono giorni che l’olio di cardo gli viene somministrato in qualsiasi pietanza. Siccome l’olio di cardo è uno degli ingredienti necessari per il gustosissimo plov, insieme a riso, montone, carote gialle, uva passa, ben presto anche il viaggiatore più schizzinoso comincerà a far spallucce di fronte al pensiero del “cancerogeno”, pur di continuare ad abbuffarsi di plov.
7-Occhiali da sole
Oltre al sole abbacinante, che rende il cielo ancor più azzurro di quello a cui siamo abituati alle nostre latitudini, gli occhiali da sole riusciranno a proteggere gli occhi dalle tempeste di sabbia. A questo proposito, torna utile anche una pashmina o una qualsiasi sciarpa o kefya per proteggere la bocca.

Questo fenomeno si manifesta più spesso nella steppa, rispetto ai luoghi coltivati; nonostante ciò, i mulinelli di sabbia possono rivelarsi molto fastidiosi. A poco servirà salire sui kurghan, collinette più o meno alte ricoperte di pietre che segnalano delle sepolture, la cosa migliore è quella di ripararsi dentro un mezzo di trasporto o una casa.

Nonostante la scomodità del Damas, o della Jeep risalente all’U.R.S.S. guidata da un ultra settantenne – anche lui un pezzo storico, e un ottimo meccanico – , entrambi questi mezzi possono tornare utili durante una tempesta di sabbia. Tutti gli scossoni e le scomodità vengono cancellati dal sollievo di poter respirare aria pura, riva di sabbia. A meno che, ovviamente, qualcuno del vostro team non abbia appena abbracciato un alabai, un puzzolentissimo cane pastore, spesso feroce. Se mai decideste di abbracciarne uno, è d’uopo chiedere il permesso al padrone; anche se è ben più probabile che ne incontrerete uno di quelli territoriali, che vi costringerà a scappare a gambe levate.

8-Saper ascoltare il canto del vento.
Una buona dose di curiosità, capacità di adattamento e un entusiasmo pari a quella di un bambino alle prese con le prime esperienze possono far comprendere la magia intrinseca della steppa uzbeka.

Ci si potrà ritrovare ad imparare arie della Tosca o a cercare di tirare di scherma, e in ogni situazione, anche la peggiore, si riuscirà ad apprezzare ciò che ci circonda. Nonostante l’apparente monotonia, vi è una varietà infinita di personaggi, di ambienti, di fauna e flora che riusciranno ad allietare l’animo.

Le parole non riescono a descrivere il canto del vento, la nostalgia che si attacca addosso dopo aver lasciato Samarcanda. Si è contratto il mal d’Asia quando si cerca nell’aria il brusio del bazar; il vento caldo, costante compagno delle passeggiate nella steppa; il profumo delle spezie o del montone cucinato fin dall’alba; il mal d’Asia è quando si cerca di descrivere un mondo a cui non si appartiene, ma che al tempo stesso è come se si conoscesse da sempre. Il mal d’Asia si rintana dentro l’animo, e non lascia perdere la presa, un po’ come le canzoni uzbeke. Nonostante il neo-melodismo ricordi un po’ un gusto partenopeo, ascoltare “Salam alaykum jona”, ovvero “Ciao amore mio”, una volta rientrati, può riuscire a rievocare il canto del vento nella steppa.
Domiziana Rossi
(Tutte le immagini appartengono all’autore)